Schegge di ricordi (1993)

Questo scritto autobiografico, inedito fino al 2013, pubblicato in L. Binni, La protesta di Walter Binni. Una biografia cit., risale all’estate del 1993 ed è dedicato da Binni alla ricostruzione del proprio retroterra familiare umbro-marchigiano, agli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza.

Schegge di ricordi

Sono di origini in parte aristocratiche (3 quarti), in parte (1 quarto) borghesi-terriere (e forse all’indietro contadine). Proprio da questo ultimo quarto traggo il cognome che mi riporta alle Marche, a Camerino (e forse a qualche paesino sulle montagne dietro Camerino).

Non riesco a risalire piú indietro del mio bisnonno (Gaetano Binni), vissuto a Camerino e sepolto ancora in una chiesa (Santa Maria in Via) già dopo l’Unità d’Italia. Era un proprietario terriero avido e duro e mio nonno me lo dipingeva cosí (una volta aveva promesso al figlio ragazzino di portarlo in una delle sue fattorie in calesse: ma era andato a dormire e all’ora stabilita non si svegliava; mio nonno lo scosse piú volte, finché con una spinta maldestra lo fece cadere dal letto provocando la sua collera: lo picchiò e annullò la gita promessa!). Una mia cara zia, la zia Ines, figlia minore del fratello di mio nonno, Oreste, mi raccontava che un giorno, a Camerino, bambina, era in casa di questo suo nonno e, incuriosita del fatto che si era chiuso accuratamente in una stanza, guardò dal buco della serratura per vedere che cosa facesse e lo vide assorto a contemplare immobile un cumulo di monete d’oro che coprivano un grande tavolone. Tutto quell’oro mandava un balenío di luce da cui quel vecchio avaro era come incantato!

Un suo fratello, un canonico del Duomo di Camerino, era cosí spilorcio che mio padre bambino ne ricevette in regalo solo un bottone che si era staccato dalla sua tonaca.

E, per ragioni a me rimaste ignote, alla sua morte questo bisnonno lasciò solo la legittima ai suoi figli maschi (Pietro, Oreste e Gigi-Pier Battista frate francescano), e l’eredità di case e terreni alle due figlie, una rimasta sempre nubile e una sposata che divenne di fatto la vera unica erede mantenendo in casa la sorella zitella.

Mio nonno Pietro, nato nel 1855 (e morto nel 1938), uomo molto mite e pacifico, aveva fatto l’Istituto tecnico e si diplomò come geometra pensando al suo destino come amministratore dei suoi immaginati beni terrieri. E, malgrado la delusione del testamento paterno, visse “del suo” fra Camerino e una sua casa in via del Morrotto e una campagna vicina, lo Scario, dove possedeva un villino e un podere con una famiglia di contadini. E nel 1884 sposò la marchesina Elena Degli Azzi Vitelleschi, cugina di Rita Vitelleschi, sposata dal fratello di mio nonno, Oreste, che l’aveva conosciuta a Foligno dove esercitava la professione di dentista. È cosí che aveva conosciuto nella casa del fratello la sua futura moglie (mi sembra, a stare a certi accenni fugaci di mio padre, dopo una delusione e un’oscura vicenda amorosa in cui si inseriva una sua caduta da cavallo che le aveva leso un occhio che rimase – per dirla alla toscana – un po’ “affrittellato”), credo dopo la morte del padre nel ’74 e gli sperperi della famiglia del fratello Peppino e specie della moglie di questi, una Filicaldi romana: era iniziato lo sfacelo economico dei Degli Azzi... Poi, sempre su suggerimento del fratello Oreste, che nel frattempo si era trasferito a Perugia, acquistò una farmacia in quella città e sui quarant’anni intraprese la strada di farmacista nella facoltà di farmacia di Camerino, molto agevolato dall’amicizia con il suo preside, certo monsignor Boccali. E nel 1899, laureatosi (o diplomatosi?) farmacista, si trasferí a Perugia con la moglie, lieta di tornare nella sua città, e con il figlio Renato (nato il 10 maggio del 1885), mio padre, e aprí la sua farmacia in Piazza del Comune, prima in un locale quasi di fronte al Duomo (dove poi c’era il negozio di mobili di Roganti-Ruffini) e poi (dopo uno scoppio rovinoso in cui perse la vita un suo “uomo di bottega” che pestava nel mortaio sostanze atte a fabbricar “bombe” per fare stragi di pesci nel lago Trasimeno) in un locale del Palazzo del Vescovo, di fronte alla fontana dei Pisano, che tanta parte ha nei miei ricordi infantili.

Mio padre nasceva dunque dall’unione di un Binni e di una Degli Azzi Vitelleschi.

I Degli Azzi (l’aggiunta di Vitelleschi si ebbe in seguito a un matrimonio nei primi decenni dell’800) erano una famiglia di Arezzo di cui si hanno notizie fin dal ’300 (conservo un dossier voluminoso mandatomi dal mio cugino Peppino Degli Azzi alcuni anni prima della sua morte e che egli aveva raccolto con l’aiuto di sua madre Virginia in vista di un suo accoglimento nell’ordine dei Cavalieri di Malta: me ne servirò per integrare questa parte) e poi alcuni rami della famiglia acquistarono terre e ville in Umbria nel ’600. Di questi il ramo principale si stabilí a Perugia acquistando una villa di origine quattrocentesca a Casaglia (non molto lontano da Monteluce e dal luogo dove verso metà Ottocento fu aperto il cimitero di Perugia) e tenute e una villa a Civitella d’Arna, sopra il Tevere, e un piano per l’inverno a Perugia in Piazza della Repubblica sopra il teatro Pavone. Anche se già nel periodo dell’occupazione francese, a fine ’700, Francesco Degli Azzi alienava una parte dei terreni di Civitella d’Arna vendendoli al suo fattore, tale Baldelli che firmava con la croce, mentre lui firmava come «cittadino marchese Francesco Degli Azzi»! Da quel Baldelli discende il mio amico, lo storico della lingua, Ignazio Baldelli, mentre a me da quel Francesco è pervenuto solo un orologio d’oro da tasca, di marca svizzera e purtroppo ora inservibile perché la chiavetta è spanata grazie alle malefatte di un orologiaio antiquario romano!

E cosí si arriva al figlio di quel Francesco e padre di mia nonna Elena, Giustiniano Degli Azzi Vitelleschi, patrizio di Perugia e di Foligno, nato nel 1818 e morto precocemente nel 1874, personaggio di notevole rilievo, giurista, professore di diritto canonico nell’Università di Perugia, conservatore delle Ipoteche, compositore di versi (in gara con la moglie Giulia Girolamini) che venivano recitati nell’Accademia dei Filedoni, allora nello stesso palazzo dove nell’inverno soggiornava la famiglia Degli Azzi. Uomo di carattere orgoglioso e caparbio nelle sue idee cattolico-reazionarie, fu uno dei 5 nobili umbri che confermarono la loro fedeltà a Pio IX dopo che Perugia era stata conquistata e saccheggiata dal reggimento svizzero pontificio il 20 giugno del 1859. Allora nella sua villa di Casaglia (servita da una ventina di persone di servizio, come ricordava con rimpianto mia nonna) ospitò piú volte l’arcivescovo Pecci (il futuro Leone XIII) che mia nonna bambina considerava di casa e nella sua vecchiaia si vantava di essere stata piú volte sulle ginocchia del futuro papa (io ci ridevo molto e lei ribatteva: «ma ero una bambina di pochi anni!»). Quando poi nel settembre del ’60 i bersaglieri di Cialdini occuparono Perugia, mio padre mi narrava con molta malignità che era rimasto celebre a Perugia l’ardire retrivo di Giustiniano che volle farsi condurre dalla sua carrozza in Piazza, cioè nel Corso, sfidando tutto impettito le invettive e gli sputi di una folla festante per la liberazione della città dall’odiato giogo papalino. Era comunque un forte carattere, e io mi sento in qualche modo piú legato a quell’antenato codino, ma intransigente e coraggioso (ma ben piú al mio nonno Francesco Agabiti garibaldino e al bisnonno Girolamo Barugi, patriota e capo riconosciuto della massoneria umbra, quando la massoneria era altra cosa da quella che poi è diventata e contro la quale io mi sono battuto ricavandone persecuzione e odio), che non al ricordato bisnonno Gaetano Binni e anche a mio nonno, buono, mite, ma la cui insegna era: «io sono riccio e non me ne impiccio!».

Da Giustiniano e da Giulia Girolamini nacque, come dicevo, mia nonna Elena nel 1858, sorella minore dell’unico figlio maschio, Peppino, e di Clelia andata sposa al conte Cesare Vatielli, e morta di parto dando alla luce Francesco Vatielli, storico della musica a Bologna e marito di una contessa bolognese Virginia (?) boriosa e megalomane, che creò difficoltà economiche al marito, che ricordo a casa nostra, un vero signore e antifascista accanito (ma io, bambino, non capivo molto della sua appassionata perorazione sulla libertà!), padre di due belle ragazze, Clelia ed Elena, che passavano periodi estivi a casa nostra (molto simpatica e disinvolta la prima che mi ammetteva nella sua stanza discinta, suscitando un moto di inconsapevole turbamento in me, bambino e ragazzino; piú simile alla madre la seconda, molto ammirata quando passava con me per il Corso di Perugia. Elena è morta da tempo, di Clelia sposata ad un ingegnere di Pordenone non ho piú notizie da tempo).

Cosí si intreccia la famiglia Vatielli Bracci di Pesaro (erano di lontana origine fiamminga) alla mia famiglia: ne parlerò nei miei ricordi pesaresi, nel loro palazzo fra ’21 e ’23, con mia nonna e con i miei genitori.

Dopo la morte per un colpo apoplettico di Giustiniano (è sepolto con lapide che esalta la sua perizia giuridica e la sua fede «non fucata» nella chiesa di Casaglia sotto il cimitero nuovo, in cui mia nonna ricordava come in ottobre i cappuccini cui era affidato il cimitero e che disponevano di locali comodi e ben abitabili invitavano i Degli Azzi, signori di quella parte di campagna suburbana, a un lauto convito il cui piatto forte era un arrosto di tordi allo spiedo), le fortune dei Degli Azzi precipitarono rapidamente per l’incapacità amministrativa della vedova (il figlio si occupava solo di assecondare le spese megalomani della moglie e della numerosa figliolanza) che finí per affidarsi ciecamente ad un fattore di cui mia nonna ricordava con odio il cognome e le malefatte che misero nelle sue mani gran parte delle terre di Casaglia e di Civitella d’Arna.

Sicché alla fine dell’800, prima della morte di Giulia Girolamini, quasi tutto il patrimonio dei Degli Azzi era scomparso e dopo la morte precoce di Peppino e di sua moglie ai figli non restò che procacciarsi da vivere con varie professioni (i maschi) e con matrimoni piú o meno fortunati (le femmine). Le femmine non le ho conosciute (una viveva ad Assisi, moglie del conte Pucci in un bel palazzo che prospettava su Piazza Santa Chiara). I maschi invece li ho ben conosciuti, soprattutto lo zio Ugo, che viveva a Perugia, medico condotto nella campagna vicina (a me molto caro perché semplice e schietto e antifascista, credo massone) con la sua placida moglie Virginia e il figlio Peppino, svogliato ma simpatico, che con molto sforzo si laureò in Legge, finendo per un lungo periodo commissario di polizia e poi a Torino diventò fortunato commercialista e felice marito di una torinese, Enrichetta, che non ho conosciuto.

Nei miei ricordi adolescenziali Peppino ritorna soprattutto per le origini della mia avversione all’uso della motocicletta: un giorno passava per il Corso, mi vide e mi volle portare con sé su una motocicletta che conduceva a forte velocità giú per l’Alberata, sotto S. Ercolano per via XX settembre, quando per guardare una bella ragazza e rivolgerle complimenti assai grevi si voltò con la testa, non vide la curva verso S. Margherita e piombò a terra insieme a me. Non riportammo nessuna ferita o contusione e ci rialzammo spazzolandoci con le mani i vestiti malconci. Ma io non volli saperne di seguirlo ancora sulla motocicletta e dopo di allora rifiutai sempre di avere a che fare con le motociclette.

Un altro zio che viveva a Perugia era lo zio Carlo, impiegato di banca e commerciante in mobili e oggetti di cui era piena la sua casa (derivati dai resti della villa di Casaglia): buon uomo ma non molto intelligente e avveduto, accompagnatore della moglie, la zia Gigia, fanatica per le memorie avite dei Degli Azzi, con due figli, uno Gallo Orio, di qualche anno maggiore di me, buonissimo e mite, ma di scarso cervello, rapito sui vent’anni da una forma di tubercolosi, l’altro, Ubaldo, mio coetaneo e compagno dei primi anni di ginnasio, poi laureatosi in legge e con una certa vena letteraria (in casa sua riuní una specie di accademia domestica, dominata da un milanese fanatico e chiacchierone e composta da me – ne riparlerò – quattordicenne e da un Balducci che nell’accademia rappresentava la musica!) che lo portò a diventare cronista e corrispondente da Perugia de «La Nazione». Poi lo rimpannucciò il matrimonio con una sua collega di classe, ma ricca, Marucca, contessa romana, cresciuta nel bel palazzo di Via della Scrofa. Sicché visse con lei nella villa di Prepo, proprietà della moglie, assumendo una funzione di ospitalità di artisti e letterati di mezza tacca che capitavano a Perugia. Ora egli è morto da tempo, mentre vive, lucida e attiva in opere di beneficienza cattoliche, Marucca, ormai unica superstite della famiglia Degli Azzi.

Infatti lo zio Giustiniano, al contrario dell’omonimo suo nonno, massone, liberale e monarchico, laureato in lettere e vissuto a Firenze come studioso di storia perugina (suo è un pregevole volume sulle stragi del XX giugno), unico uomo di un certo valore di quella ultima generazione dei Degli Azzi e specialista di araldica, rimase celibe e morí senza figli. C’è ormai solo Marucca che porta quel cognome.

Una cugina di mia nonna Elena, la marchesina Vincenza Barugi di Foligno (insieme erano state a Firenze in un collegio per giovani nobili, Poggio Imperiale o alla Quercia: fra le altre c’era Agnese Della Genga, poi marchesa Antinori, la contessa Matilde Mornati sposata Quaranta di Macerata, la contessa Parisani di Camerino, tutte poi rimaste care amiche di mia nonna), conobbe nel castello che era Popola, di cui era “feudatario” suo padre Girolamo, un giovane romagnolo, bello e con un naso assai virile, arcuato, tipicamente romagnolo, Francesco Agabiti N.U. (nobiluomo), tenente nell’esercito “sardo”, cioè da tempo italiano, il cui reggimento faceva le manovre nei pressi di Colfiorito, sotto di cui era la Popola. Egli, con tutta l’ufficialità del reggimento, era stato invitato dal marchese Girolamo nel suo castello e in quella visita la giovane Vincenza che porgeva il caffè a lui rimase folgorata dalla figura prestante del giovane ufficiale (molto ottocentesca) e dal suo complimento galante («Marchesina, questo caffè ha un sapore squisito perché offerto dalle sue gentilissime mani»), come raccontava ancora nella sua vecchiaia, ancora esaltandosi nell’elogio della sua virile bellezza. Poi, congedato dall’esercito, come laureato in legge, a Bologna, per alcuni anni fu segretario comunale a Norcia (rimase impressa nella mia memoria attraverso il racconto di mia madre la sua frase per indicare le scarsissime risorse della sua residenza umbra: la scelta per una passeggiata con un suo collega di due sole mète: «o Triponzi o Santa Vitala») e quell’amore nato a colpo di fulmine maturò con visite a Foligno a Palazzo Barugi, con la mano ottenuta da Vincenza e con il matrimonio nel 1878. Dopodiché, rifiutata l’offerta da parte del suo amico Pianciani sindaco di Roma di diventare segretario comunale della capitale, accettò invece quello di segretario capo a Pesaro dove visse fino al 1904 per ritirarsi in pensione a Roma, dove morí nel 1914 dopo alcuni anni di quasi immobilità per paralisi al lato sinistro.

Da quel matrimonio nel 1886, il 7 febbraio, dopo una sorella maggiore, Margherita, e un fratello, Augusto, del 1879, nacque mia madre Celestina, familiarmente Tina, come dal matrimonio di Pietro Binni ed Elena Degli Azzi Vitelleschi nacque nel 1885, il 10 maggio, mio padre Renato.

Cosí vorrei ora dare qualche notizia sugli altri due rami della mia ascendenza: gli Agabiti e i Barugi. Altri due rami ora quasi estinti e crollati economicamente nei primi decenni del ’900: via ville e palazzi e all’ultimo in questa fin de race dei Barugi resta solo la mia cugina Francesca (del 1912), ridotta a fare l’assistente sociale a Roma, e un giovane architetto Girolamo, detto Momo, per ora non sposato e senza figli; degli Agabiti resta solo a Rimini un ragioniere, Renato, di poco maggiore di me, discendente da un fratello di mio nonno, il colonnello Lallo, proprietario di una piccola pensione sul lungomare.

Lungo sarebbe il discorso sui Barugi, una famiglia patrizia di Foligno: ne resta il nome a un magnifico palazzo quattrocentesco, ora proprietà del Comune, alienata la tenuta e il castello di Popola, di origine medievale, di cui, per le cure di un caro amico folignate, Rino Gentili, professore di pedagogia all’Università di Siena, possiedo molti documenti atti a permettermi una ricostruzione delle vicende e delle glorie (cardinali, governatori, guerrieri) di quella famiglia. Lo farò con piú comodo, se poi lo potrò fare!

Certo che era a inizio ’800 fra le famiglie folignati piú nobili e ricche e la loro storia si inserisce nella storia del Risorgimento in Umbria, specie grazie al mio bisnonno, Girolamo, sindaco della sua città, liberale deciso e capo riconosciuto della massoneria umbra. Mia nonna ricordava (ciò che conforta la figura di un liberalconservatore) che, in alcuni tumulti popolari di tipo anarchico, egli ricevette una rappresentanza di rivoltosi e dette a loro l’incarico di disfare il pavimento di un’ala del suo palazzo e poi di rifarlo: egli avrebbe pagato ai lavoratori le giornate di quel lavoro inutile. Un gesto altero di disprezzo e di disinteresse personale.

Poi un suo figlio, Luigi, che si suicidò per debiti di gioco e per un amore infelice, lasciò la sua eredità (fra cui la Popola) all’Ospedale cittadino e da quel momento le cose andarono a rotoli e malgrado l’interessamento di gerarchi fascisti di Foligno, soprattutto Cianetti, il dissesto travolse una famiglia che viveva ancora nell’agio della fanciullezza di mia cugina Francesca, e malumori di vario genere finirono per staccare mia nonna Vincenza e mia madre dai parenti di Foligno, tanto che io non ne ho conosciuto, e molto tardi, che Francesca, donna fine, religiosa e monarchica e tuttora rimasta come frastornata dal tracollo avvenuto verso il 1930, di cui sembra non rendersi ragione e su cui si interroga senza risposta.

Fra i documenti che devo meglio consultare mi sembra di aver notato, in una rapida scorsa alcuni anni fa, un matrimonio di una Barugi con un Leopardi di Recanati. Ma quando? Accertare una sia pur tenue mia parentela con il poeta della mia vita sarebbe per me un motivo di orgoglio senile!

Gli Agabiti, di cui si tramanda una leggendaria parentela con certo beato Pellegrino (nel ’200), provengono da Fermo come famiglia nobile e agiata che si trasferí nel ’600 a Rimini (c’è ancora una piccola piazza Degli Agabiti dove sorgevano le loro case) ed ebbero una lunga serie di magistrati dello Stato pontificio sino al padre del mio nonno Francesco, che si sposò con una bolognese, la contessa Sampieri, ed essendo giudice a Cupramontana nelle Marche nel 1840 ebbe quel figlio. Il quale crebbe fra Rimini e Bologna dove, fatti gli studi classici, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza frequentando molti uomini assai notevoli nella storia del Risorgimento (v. la biografia del professor Antonio Brancati, direttore della biblioteca Oliveriana di Pesaro e amico di Scevola Mariotti) e laureatosi intraprese la carriera di segretario comunale. Ma nel 1866 con i volontari bolognesi partecipò alla 3a guerra di indipendenza e nel ’67 come tenente garibaldino partecipò alla sfortunata impresa di Mentana, per passare all’esercito italiano quando, come ho narrato, incontrò e si innamorò, ricambiato, della giovane Vincenza Barugi, che sposò nel 1878 vivendo a lungo a Pesaro come integerrimo segretario capo del Comune. Viveva con la famiglia in un villino fuori Porta Fano, in una zona molto isolata. E vi ritornava dopo i Consigli comunali a notte fonda. Mia madre, che figlia minore era carissima al padre che l’aveva avuta, per quei tempi, in età avanzata (46 anni), spiegava la sua salute cagionevole dicendo malinconicamente «sono figlia di un vecchio», ma insieme aveva un profondo affetto per il padre, forse ai suoi occhi un po’ “vecchio”, ma bello, dal portamento “militare”, garibaldino e funzionario di onestà esemplare (assai meno amava sua madre anche per il suo carattere autoritario e poco tenero). Sí che ne ricordava fatti e i molti detti scherzosi romagnoli che mi colpivano molto e in gran parte si sono impressi per sempre nella mia memoria (finché non l’avrò perduta per l’invecchiamento e, tutti, per la prossima morte: «abisso orrido, immenso cui precipitando il tutto oblia», dice il Leopardi del vecchierel canuto e stanco, metafora della vita di tutti): cosí del periodo pesarese, proprio in uno dei suoi ritorni a casa di notte, mia madre mi raccontava come una volta egli venne aggredito alle spalle da un ignoto con un coltello che il suo cappotto pesante sviò e attutí, e come, voltatosi, l’aggressore vedendolo in faccia inorridí e fuggí gridandogli che l’aveva scambiato per un’altra persona. E del periodo romano, dal 1904 alla sua morte nel 1914, mia madre ricordava non solo la sua nuova attività di pittore per la campagna o per le vie di Roma – ho ancora in casa un paio di suoi quadri di impronta verista – trovando nuove amicizie di altri artisti dilettanti, nel caffè Greco e in altri caffè del centro di Roma. Gli Agabiti soggiornarono prima in via del Babuino 157 all’inizio e con finestre su Piazza di Spagna, poi in via del Pantheon 57, con finestre che vedevano il Pantheon dove il nonno si recava quando era il suo turno, vestito in frac, come reduce delle patrie battaglie e guardia d’onore alle tombe di Vittorio Emanuele II e Umberto I. Piú tardi passarono ai Prati, in via Taranto, e alla fine in via S. Croce di Gerusalemme in una casa dei funzionari della Camera dei Deputati cui apparteneva mio zio Augusto (era segretario della biblioteca della Camera). Mio zio Augusto, fratello diletto di mia madre: «Augustolo! come sei bello», gli diceva bambina quando si lavava collo e petto nel giardino. Ed effettivamente egli era bello, come lo ricordo anch’io che mi rivedo a 4 anni sul corso ventoso di Perugia, preso per mano da mia madre e da mio zio ufficiale (nel 1917, poco prima della sua morte precoce per spagnola, dopo lunghi periodi passati sulla Fronte Giulia come tenente del genio zappatori e cosí impegnato anche in azioni belliche, in assalti alla baionetta). Lo chiamavo lo zio Oppi (nuo-ddui, un-due il passo dei soldati) e camminavo orgoglioso e impettito fra lui e mia madre con la sua figura slanciata e la sua aria sorridente-malinconica. Ma di Augusto ho parlato a lungo in un intervento a Pesaro, in una commemorazione nel centenario della sua nascita. Semmai lo riporterò anche qui.

Ma ancora del nonno Francesco (sempre da me cosí amato, anche per amore di mia madre, che quando nacque il mio primo figlio il 10 novembre 1939, a sei giorni dalla morte precoce di mia madre, il 4 novembre dello stesso anno, lo volli chiamare Francesco, né trovai obbiezioni nella mia compagna Elena) un ricordo di mia madre del periodo romano, legato all’uso del tram (erano ancora a cavalli o già ad elettricità?) da parte di questo dignitoso anziano colpito troppo presto da una paralisi parziale che gli ostacolava i movimenti, ma non la pratica di una forma di cortesia e di “cavalleria” verso il sesso femminile, come avvenne una volta che, non essendoci altri posti nella vettura, con sforzo si alzò per cedere il posto ad una fanciulla! E sul tram un altro episodio testimonia della sua bontà e mitezza: quando un borseggiatore aveva infilato la mano nella sua tasca, ed egli l’aveva bloccata, l’altro gli sussurrò «non mi rovini, mi lasci, rubo per l’estremo bisogno», e mio nonno lo lasciò in silenzio e gli mise in mano una discreta somma di denaro.

E quante scherzose battute e barzellette di quest’uomo allegro e sereno sono giunte a me dai racconti di mia madre!

Alcune in romagnolo (che già mia madre, pesarese, un po’ storpiava e che io tanto piú non riesco a riprodurre fedelmente), come quella di un certo signore che passeggiava solitario, alto e piatto, in un cappotto lungo e largo, e che perciò i ragazzi per strada salutavano con un burlesco «al ved’ l’armeri!» (vedi l’armadio!). L’uomo passava silenzioso e impassibile. Ma un giorno che i ragazzi si erano fatti piú numerosi e insolenti egli, persa la pazienza, allungò due ceffoni, uno a destra e uno a sinistra, aprendo le lunghe braccia e colpendo i piú vicini e dicendo ad alta voce, ma sempre impassibile e atona: «S’è avert l’armeri».

Una piú lunga su una contadina che aveva cotto al forno una torta e che all’inaspettata visita di una comare indiscreta si era messa la torta sotto il sedere, coperta dalle lunghe gonne, e sopportava eroicamente il calore che le tormentava le carni. Sicché, poiché fuori pioveva, aveva cercato di indurre la vicina ad andarsene: «Piove e mal temp’è, a casa d’altri mal si stè». E l’altra pronta, con una battuta che non so riferire, replicò che vedeva bene che la torta appena sfornata bruciava il sedere della vicina, che non voleva rivelare la torta per non dover dargliene un pezzo!

E, in italiano, certi versetti rimasti tronchi e che a me bambino mettevano allegria: «Sotto il ponte di Belacqua / c’è un puttin che fa la cacca...» e «Bastonate piú di mille furon date a certi frati che pescavano le anguille». O la lettera telegrafica che egli come segretario provvisorio delle province di Pesaro e Urbino inviò al sindaco di un paesino di montagna che chiedeva, con parole infiorate di “quinci”, “quindi”, “guari” e simili antiquate particelle, fondi per la costruzione di un ponte a suo giudizio inutile: «E quinci e quindi e guari / fate il ponte coi vostri denari».

O la delizia di mia madre adolescente la mattina del primo dell’anno quando la banda comunale di Pesaro, dopo essere stata sotto la casa del sindaco, si portava sotto il villino del segretario ed eseguiva una sonata augurale. E le allegre gite e i soggiorni estivi nel villino di Muraglia nei dintorni di Pesaro, in compagnia di alcune sue amiche, come Ginevra Rigoni o Ginevra (?) Vatielli, belle ed eleganti fanciulle con le quali scherzavano su di un pretendente di mia madre (quando già era a Roma, ma tornava a Pesaro d’estate) che per il suo monumentale naso arcuato chiamavano «l’arco di Tito».

Muraglia fu venduta da Francesco per fare la dote a mia madre (mi pare 20 mila lire che ai primi anni del ’900 erano una discreta sommetta), poi la paralisi e la morte del nonno (nel 1914) e poi la guerra e la morte dello zio Augusto (che si era sposato contro il parere della sorella e della madre con una svizzera – o svedese? – sua compagna teosofa provocando dissensi e malumori) e infine le condizioni di salute mentale della nonna Vincenza, a suo dire ingigantite dalle figlie e dai generi (soprattutto la figlia maggiore Margherita e il genero Reno Mezzelani direttore della Banca d’Italia di varie città) provocarono la crisi finale della famiglia Agabiti. Certo mia nonna rimasta a Roma era diventata sempre piú spendacciona e aveva compiuto gesti inconsulti come la donazione di molti buoni del Tesoro ad uno sconosciuto che aveva incontrato in un giardino e che, uomo onesto, si era preoccupato di restituirli intatti, perché li desse ai parenti, a una governante della casa della nonna, che si era affezionata ormai solo ad una cagnetta, Bibí, e che non poteva piú soffrire le figlie che ostacolavano il suo modo di vita. Tanto che, dopo periodi di casa di cura, mia nonna venne interdetta, nominato suo tutore lo zio Reno e lei confinata a Camerino nella casa-pensione della zia Gina, cugina di mio padre.

Mi duole molto dover narrare questo tristissimo epilogo di questa mia nonna purtroppo quasi ignorata in casa mia; anche mia madre cosí buona, ma anche un po’ debole, non la nominava quasi mai e mi ricordava ben poco di lei, della famiglia Barugi. L’unico ricordo rimastomi impresso è quello della nonna Vincenza bambina con la madre, nel castello di Popola, che faceva preparare un ricco rinfresco per il parroco: «Uffi! Quante storie per il pecoro».

Ancora dei Barugi nell’800 ricordo la scomunica da parte del vescovo del mio bisnonno Girolamo, sindaco di Foligno, che aveva vietato una processione.

Io molto piccolo fui almeno una volta a Roma in casa di mia nonna: c’era un balcone a cui amavo stare affacciato e mia madre ricordava un fatto che io ho considerato sintomatico per tutta la mia vita. Si festeggiava un matrimonio in una casa vicina e da un caffè sotto di noi provenivano cameriere con guantiere e vassoi carichi di paste, di gelati, di bevande. Io, entusiasmato e senza il minimo mio personale interesse, battevo le manine (o credevo che qualcuna di quelle leccornie sarebbe arrivata a me?).

Io poi ritrovai mia nonna Vincenza, una signora piuttosto severa, molto aristocratica, non bella, ma imponente, con il volto pieno sul mento di ispidi peli e con un occhio storto, credo da una crisi nervosa, che riceveva ed esigeva sempre il suo titolo giovanile di marchesa, a Camerino, nella casa della zia Gina. La vidi piú volte ai pasti e non provai per lei affetto, forse perché influenzato dal silenzio di mia madre e dal giudizio negativo di mio padre e dei miei zii Mezzelani. Solo una volta, sui 18 anni (quando mi preparavo nel ’31 all’esame di concorso alla Normale di Pisa), provai pena (ma anche profondo imbarazzo) quando lei raccontò con sdegno a un’inquilina della zia Gina, la moglie del matematico Ronzi, di quando i suoi persecutori familiari per interdirla l’avevano sottoposta a umilianti visite anche ginecologiche.

Una sola volta essa venne a Perugia in macchina per discutere della sua situazione con i miei genitori e, credo, con gli zii Mezzelani, e io con una scusa fui inviato fuori casa e pranzai in Via Danzetta in un piccolo restaurant: dovevo avere sui 10 anni.

Mi colpiva ancora di questa nonna la vita ritirata: stava per lo piú nella sua camera, per la verità una camera vasta e luminosa, e scriveva un suo diario e leggeva da suoi libri e da un’agenda piena di massime metastasiane, frutto certo dei suoi studi nel convitto fiorentino, di cui ho parlato per l’altra mia nonna. E certo Metastasio era anche a metà ’800 fornitore, in collegi religiosi per nobili fanciulle, di poetiche istruzioni di comportamento. La nonna Vincenza morí nel 1939 quasi novantenne, nello stesso anno delle sue figlie, quasi a rivalsa su di loro e sulla loro vera (per Margherita) o presunta (per mia madre) cattiveria nei suoi confronti.

Dai miei 4 nonni passo ora ai loro due figli da cui io sono stato procreato: Renato Binni e Celestina Agabiti, cugini di 2° grado (le due nonne erano cugine di 1° grado). Erano quasi coetanei (1885 mio padre, 1886 mia madre), belli tutti e due anche se di una bellezza diversa: di volto piú regolare e molto vitale mio padre (a Perugia – mi narrava Beatrice Guardabassi, la donna piú bella di Perugia e poi di Firenze – lo chiamavano «il farmacista bello» e Aldo Capitini mi diceva «piace molto alle donne») e per natura donnaiolo, elegante e galante (ancora da vecchio usava maniere estremamente galanti persino con le giovani commesse dei negozi di Lucca in cui accompagnava mia moglie, che ne rideva molto). Era dotato di una notevole intelligenza pronta anche se non profonda; era un buon chimico e avrebbe potuto, come egli avrebbe desiderato, riuscire un buon medico, ma per obbedire a suo padre che, come ho detto, era diventato farmacista, anche lui un po’ malgré lui, essendo figlio unico dovette fare il farmacista (ciò che egli avrebbe voluto ripetere con me, suo figlio unico, se non avesse trovato la mia decisa contrarietà). E per la verità, come ho accennato, era un “signorino” proveniente, per madre, da radici aristocratiche e desideroso soprattutto di andare a caccia con i suoi amici, proprietari di “riserve”, di fare la buona vita e di “cacciare” anche le donne belle. E questo costituí il cruccio di mia madre, innamoratissima di lui e resa oltremodo gelosa, cose che ebbero incidenza sulla mia stessa visione della vita e accrebbero la mia adolescenziale tendenza alla malinconia (come preciserò a suo tempo in rapporto ad una “relazione” piú lunga e preoccupante di mio padre). Dirò subito che in certi aspetti del mio volto, ma piú in certe mosse, ho ripreso da lui una certa somiglianza che crebbe con l’invecchiamento (come notava acutamente Giuliano Vassalli rivendendomi ai Lincei dopo qualche anno di lontananza fra noi), che non nei tratti che in mio padre erano regolari e francamente “belli” e in me, specie nell’adolescenza e gioventú, quando ero magrissimo, irregolari, quasi beethoveniani, forse anche attraenti proprio per un che di selvaggio e insieme di orientale. «Figlio del celeste impero», mi chiamava affettuosamente il mio professore di italiano al Liceo, soprattutto per gli occhi a mandorla. E per la tinta della pelle ricordavo mia madre, molto bruna di capelli e di carnagione, e la somiglianza si approfondiva in rapporto ai caratteri psichici e umorali.

Mia madre, alta, slanciata, elegante, di volto attraente anche se non molto regolare, illuminata da due occhi grandi e profondi che potevano sorridere ma piú spesso erano malinconici. Anche perché essa, che aveva avuto delle violenti febbri tifoidee nell’età dello sviluppo che l’aveva costretta a interrompere le “normali” e a proseguire con lezioni private e con molte letture spesso indicatele dal fratello, ne rimase sempre di salute piuttosto cagionevole. Mi ricordo che senza che io ne capissi la causa la vedevo spesso a letto per dolori mestruali e seppi poi che il concepire e il portare il feto fino al parto era stato per lei per due volte rischioso e mortale per la sua creatura. Il primo, un anno dopo il suo matrimonio, nel 1910, si risolse in un aborto. E alcuni anni dopo la mia nascita un secondo maschio le nacque morto (e mio padre, dovendolo denunciare all’anagrafe, lo chiamò con amaro humour “Fortunato”). Sicché io sono nato da una madre il cui grembo con grande sforzo riuscí a darmi vita in mezzo a un aborto e a un fratello nato morto!

Ma corrispettivo di tale delicatezza di salute era in lei un’estrema sensibilità, un gusto squisito per le cose belle e per le persone che sentiva dotate di alta spiritualità e di bontà. Tanto che Aldo Capitini una volta mi disse che lei lo faceva pensare alla Garbo (allora prototipo di una bellezza tutta spirituale per la mia generazione e per quella di Aldo!). Certo facilmente la invadeva una debolezza profonda (quella che spiega la sua adesione alla interdizione della madre voluta soprattutto dalla sorella e dai due cognati Mezzelani e Binni) e a lunghe passeggiate con me bambino o da sola alternava giornate passate in casa, in lunghe ore passate con la pettiniera sulle spalle davanti alla sua toletta a pettinarsi i lunghi capelli che le scendevano fino ai fianchi o a lavorare a maglia davanti ad un tavolinetto ottocentesco e con una borsa di lavoro appesa alla parete vicina dove amava infilarsi una sua gattina angora, Chérie, di straordinaria eleganza e bellezza, che sporgeva fuori della borsa solo con il suo musino, beata nella vicinanza della sua amata e congeniale padrona, facendo le fusa finché io, bambino, attratto da quell’essere incantevole, ma anche desideroso di farle degli scherzi, che lei non gradiva, non venivo a interrompere i suoi sonni tirandole delle palline di pane, per cui lei saltava fuori della borsa e fuggiva lontano, o peggio, piegandomi il piú possibile sui calcagni e poi pian piano allungandomi e poi fingendo di caderle addosso dall’alto, al che lei si irrigidiva atterrita, soffiava con rabbia e al solito fuggiva lontano.

La Chérie (prima di altri gatti sempre angora o persiani a me meno cari di quella deliziosa gattina) ha grande posto fra le presenze care (i miei piccoli dispetti non turbavano il nostro reciproco affetto) della mia casa paterna, cosí come altri animali.

Ma ritorno a mia madre, al suo profondo pudore, ma anche a certe forme di improvvisa allegria: ricordo certe giornate d’inverno in cui lei, che di solito raramente andava nel grande cucinone dove quasi sempre il girarrosto girava con schidionate di tordi, di quaglie, di beccacce (fornite dalla caccia dove mio padre andava la domenica) e una donna stava spesso a spennare fagiani e folaghe, e per parecchi anni un pappagallo, Cocò, si agitava sul suo trespolo e ripeteva il suo grido rauco «cocò», «cocò» (dopo lo scoppio della prima guerra mondiale non gridava piú come aveva fatto, ripetendo le parole degli interventisti: «Guerra!») e due belle cagne da caccia bracco-pointer, la Lola e sua figlia la Dora (la prima che io rispettavo come una vera e propria persona, la seconda che partecipava ai miei giochi e che spesso veniva con me al Frontone dove io mi nascondevo dietro le gradinate dell’anfiteatro degli Arcadi perugini, e lei mi cercava e abbaiava festosa appena mi ritrovava) si stendevano sotto un grande tavolo, mia madre, assecondando il mio appetito e la mia golosità, si metteva a preparare una sottile piadina che io chiamavo “il ciocio” o le frappe carnevalesche. E ricordo in particolare un giorno di neve in cui preparò le frappe per me e per il mio compagno di studi, Antonio Covarelli.

E spesso si allietava e mi interessava con il racconto di tanti episodi e battute di suo padre, già da me riferite.

Gracile, in certe occasioni la disperazione le sviluppava una grande forza, come quando (io dovevo avere 7 o 8 anni), essendomi nascosto per gioco in un sottoscala stretto e corto e avendo tirato un chiavistello interno che non riuscivo piú a fare scorrere indietro, accorse alle mie grida spaventate e dopo aver cercato di far agire il chiavistello trovò la forza di spezzarlo e cosí di liberarmi da una posizione di estremo pericolo di morte per soffocamento. Poi mi abbracciò piangendo e chiamandomi, come faceva anche piú tardi, quando partivo per Pisa, «coccone mio».

Di mio padre ciò che piú mi disturbava sempre piú con il passare della mia infanzia e il maturarsi delle mie idee era l’avidità di cariche e onoreficenze: fu finché visse il segretario provinciale dell’ordine dei farmacisti e direttore del giornale nazionale di quella organizzazione, «Il Farmacista», e fu vice preside della Provincia e presidente dell’amministrazione dell’Ospedale civico. E si pompeggiava nella divisa d’orbace dell’odioso partito fascista, suscitando l’ironia o lo sdegno dello zio Aurelio Vitelleschi cugino di mia nonna, un vecchio aristocratico che aveva studiato medicina a Pisa (lo ritroveremo parlando della mia vita alla Normale di Pisa) e che odiava il fascismo e tutti i suoi riti e che a volte paragonava (diceva lui) il mio valore intellettuale (ero un adolescente promettente) all’ambizione e boria di mio padre.

E compresi piú tardi, quando nel ’34-35 abitò a casa nostra una giovane e simpatica signorina camerinese, Cenzina Ruffini, nella cui compagnia mia madre visse un periodo felice (con lei andava all’Accademia dei Filedoni in occasione di balli o di concerti o di conferenze, e ogni giorno andava al caffè Falci sul Corso o passeggiava nelle ore in cui la Cenzina era libera dal suo servizio nella farmacia “inglese”, come si chiamava allora la farmacia di mio nonno e mio padre; mio padre parlava inglese e Perugia era mèta con Assisi di ricchi turisti inglesi e americani, finché vennero le “sanzioni” della Società delle Nazioni e i fascisti spaccarono i vetri della doppia vetrina perché c’erano incise parole inglesi, infischiandosene del proprietario, gerarca fascista), che a mia madre anche per la sua salute (lei sempre magra era divenuta piuttosto pienotta) sarebbe stata necessaria una vita familiare meno tetra di quella che essa faceva in casa con il suocero paralizzato e la suocera quasi cieca, ambedue bisognosi della cura di due infermieri: io ero per la maggior parte del tempo a Pisa, e mio padre sostanzialmente non la capiva e la crucciava con i suoi tradimenti.

Altri ne ignoro ma uno incise molto sulle mie prime crisi malinconiche e sulla mia stessa visione pessimistica della vita. Ricordo ancora come se fosse adesso, un pomeriggio in cui ero in una stanza lontana dalla camera dei miei genitori. Mi preparavo alle lezioni del pomeriggio (dalle 2 e mezzo alle 4 e mezzo: ero in 3° ginnasio, ero dunque un ragazzo di 12, 13 anni). All’improvviso sentii mia madre alzare la sua voce, con un fondo stridulo (come è in genere delle pesaresi), e distinsi le parole indignate che rivolgeva a mio padre nelle cui tasche della giacca appoggiata a una poltrona aveva trovato (frugandola per sospetti crescenti su di una sua nuova avventura) una lettera inviatagli o passatagli da una bella vedova, sorella del ministro fascista Bastianini. Al che mio padre se ne andò infuriato di casa e partí per Napoli con la sua amante. Lo sdegno e il dolore di mia madre mi ferirono profondamente e io mi trovai ad afferrare e stringere convulsamente un tagliacarte come arma che in quel momento idealmente conficcavo nel petto di mio padre.

Ci si misero di mezzo il dentista Anacleto Ambrosi e altri amici di casa che si recarono a Roma da Bastianini per indurlo ad agire sulla sorella che aveva provocato uno scandalo già noto a Perugia e rovinoso per una famiglia stimata in città.

Fatto sta che mio padre tornò a casa e mia madre pur ferita nel suo amore e nel suo orgoglio tollerò di riaccoglierlo pentito o tale sedicente. Non io lo perdonai né volli abbracciarlo al suo ritorno come egli pretendeva e mi misi a scrivere (la mia vera produzione letteraria poi da me perduta) un poemetto che in qualche modo piuttosto allusivo adombrava la vicenda che mi aveva colpito nel mio profondo attaccamento a mia madre. Da allora, in coincidenza con la crisi dello sviluppo, soffrii di forti crisi malinconiche con scoppi di pianto che appenarono molto mia madre. E il mio risentimento verso mio padre non si cancellò che negli ultimi anni della sua vita.

Poi dopo la partenza della Cenzina (con cui avevo fatto delle lunghe passeggiate con molta simpatia ma con un sentimento di tipo fraterno: lei, l’ultima volta che ci siamo rivisti prima della sua morte, si domandava ancora perché il gelosissimo fidanzato, un professore bresciano, Carlo Pasero, si fosse arrabbiato con lei e le avesse proibito queste passeggiate con il piú giovane ed elegante “rivale non rivale”) la salute di mia madre andò sempre piú peggiorando e a poco a poco si precisò in una forma di deperimento e di sempre minor volontà di vivere. Intanto moriva, nel ’38, mio nonno Pietro e si aggravava la cecità di mia nonna; mia madre fu sottoposta a penose analisi di succhi gastrici (allora la medicina era assai indietro) all’Ospedale di Perugia, ma a nulla valevano visite e cure.

Probabilmente essa avrebbe dovuto esser portata in una casa di cura neurologica: mio padre non lo volle comprendere, io e la mia giovane compagna in attesa del primo bambino non avevamo mezzi per ricoverarla in cliniche molto costose e lontane da Perugia (mentre prima, in anni per lei decisivi, ero a fare il servizio militare fra la Scuola Allievi Ufficiali di Artiglieria di Moncalieri e il servizio di prima nomina a Bolzano, e poi per un anno, nel ’38, a Pavia dove insegnavo italiano e storia nell’Istituto Tecnico «Bordoni»).

Si era ridotta a poco piú di 40 chili. Era uno spettro. Poi a far precipitare le cose sopraggiunse il falso annuncio di un parto di mia moglie imminente che angustiò molto mia madre (intanto le giungevano le notizie della morte della sorella maggiore e della madre).

Ma ancora la mia inesperienza giovanile osava sperare in una sua ripresa. E la sera che precedette il giorno della sua morte, andando a trovarla a casa e sedendo con lei su una panca nell’ingresso, ebbi il coraggio di dirle: «Non abbandonarti, spera». Con le sue estreme parole da me percepite essa mi interruppe e rispose alla vana parola della speranza: «In che? In chi?». Era moderatamente religiosa, ma frequentava poco le chiese e non aveva mai avuto poussées mistiche. In sostanza era incredula e lo dimostrò fino alla fine.

È sepolta nella tomba fatta costruire da mio padre nella parte piú alta del cimitero di Perugia da cui potrebbe vedere se davvero vedesse con il suo volto sensibile proteso e con i suoi grandi occhi malinconici come mi apparivi e come ti rivedo con gli occhi della mente quando, specie negli ultimi anni, ti affacciavi al balcone sprone del Muraglione.

Proprio una sera scendemmo insieme al Cimitero e seduti – tu stanchissima ma senza esprimere il minimo lamento (eri una donna estremamente dignitosa) – sugli scalini sgretolati della duecentesca chiesa di S. Bevignate, poco fuori del Cimitero, ti lessi (tu assentivi con un sorriso dolente) la prima sepolcrale di Leopardi.

E della sua sensibilità, della sua schiettezza e del suo affetto per me sarebbero prova alcune lettere inviatemi in varie occasioni: purtroppo alcune ne ho perdute e solo ne ho il ricordo, come di una lettera scrittami a Moena nel ’34, circa la possibilità, anzi la certezza di avere una borsa di studio di un anno a Parigi. Io esitavo e le avevo scritto per consiglio. Ed essa, mentre si dispiaceva di non poter entrare in questioni di studio fuori della sua portata, con estrema delicatezza affacciava i suoi dubbi sulla ferita che un soggiorno a Parigi in mezzo a tante giovani studentesse eleganti (parigine!) poteva produrre sui miei sentimenti verso la “giovane lucchese” Elena che ancora non conosceva.

Ed Elena ricorda bene come essa intervenisse su di lei con estrema dolcezza quando, in un momento di malumore provocato da certi miei silenzi o timidezze nel presentarla ai miei amici, la mia giovane compagna aveva nutrito propositi di ritorno a casa dei suoi (non eravamo ancora sposati).

E verso di me il suo amore era cosí profondo che una volta (eravamo in via della Cupa appoggiati alle mura di quella via) mi disse: «Vedi, ti voglio tanto bene che te lo vorrei anche se tu fossi cosí diverso da come sei, fossi giocatore, donnaiolo, scavezzacollo». E quando le manifestai la mia adesione ad organizzazioni clandestine antifasciste, pensò un po’ e poi mi disse: «Ti posso capire. Anche i miei, mio padre, mio fratello han rischiato la vita per le loro idee. Certo, vedi, io sono stata educata nel culto della patria e della monarchia, e la mia testa non giunge a condividere la tua prospettiva rivoluzionaria. Ma te ti capisco e ne sono orgogliosa anche se ti so in pericolo».

Sarà venuta ormai l’ora di iniziare il racconto della mia vita intrecciando ad essa altre notizie sui miei nonni, genitori, parenti a mano a mano che le mie vicende lo richiedano.

Sono nato il 4 maggio 1913 a Perugia, in Via della Cupa 1 (ora 3) sotto l’arco dei Mandolini vicino alla chiesa di S. Filippo Neri (o Chiesa Nuova) e a poche centinaia di metri, attraverso la Via dei Priori, dall’arco dei Priori che sbocca sul Corso nell’area medievale e prima etrusca della mia città. Sono nato (come mi disse mia madre) di sera, verso le 21 e poco dopo il ritorno di mia madre e di mio padre dal cinema (forse il “Grifo” da molto tempo scomparso).

Poco dopo la mia nascita mia madre (fortuna o sfortuna?) mi salvò la vita in modo quasi miracoloso: dormiva nel suo letto, accanto era la mia culla sorvegliata dalla mia balia asciutta, la cara Carmela, già una delle cameriere di mia nonna ragazza. La Carmela doveva versarmi fra le labbra un cucchiaino di una medicina che era nel comodino di mia madre insieme ad altri flaconi contenenti medicine destinate a mia madre. E la Carmela, anche per la luce fioca della lampada sul comodino, scambiò per il flacone della medicina per me un altro flacone dello stesso colore che conteneva un farmaco che per un infante come me sarebbe stato mortale. Ma, mentre essa avvicinava alle mie labbra un cucchiaino colmo del farmaco letale, mia madre ebbe come in un rapido sogno la visione di ciò che stava per accadere e balzata sul letto fermò il braccio della Carmela e accesa la luce lesse l’etichetta del flacone sbagliato e versò per terra il liquido del cucchiaino. La Carmela si mise a piangere e tutta la casa fu piena di esclamazioni atterrite e poi di complimenti a mia madre per il suo salvataggio della mia tenera età, e poi di consolazione alla Carmela che non poteva rimettersi dalla paura e dal senso di colpa.

Naturalmente di quei primi anni felici e incoscienti io non posso avere ricordi; so solo che ancora i bambini allora si fasciavano stretti e poi dopo la slattamento (che avveniva verso i 2 anni) venivano vestiti come bambine con una vesticciola; da una fotografia mi vedo sul seggiolone e da un’altra precedente nudo e sgambettante su un letto.

I primi ricordi risalgono ai 3-4 anni e si confondono con i vaghi ricordi della guerra in corso. A parte il ricordo ben vivo di una sera al cinema con mio nonno e della scena di una giovane madre che dormiva con accanto un infante che veniva rapito da un uomo mascherato, donde la mia paura e il bisogno di nascondere il volto per non vedere dentro la pelliccia di mio nonno (risento ancora il calore confortante di quella pelliccia), vivi sono anche i ricordi della mia contemplazione, dai vetri del “retrobottega” della farmacia di mio nonno, dei soldati che rientravano nella caserma di Piazza S. Agostino (era la fine del ’17 o l’inizio del ’18), i soldati del reggimento cecoslovacco, con le loro mostrine bianco-rosse, che mi interessavano molto. Era lo stesso tempo in cui il mio gioco preferito era appunto quello dei soldatini di piombo che mi compravano nella merceria della signora Cesira, sul Corso. Era il tempo in cui passò da Perugia lo zio Augusto e in cui mi rivedo sul Corso ventoso tenuto per mano da mia madre e dallo zio ufficiale – lo zio “oppi” lo chiamavo, dal passo dei soldati –, in cui vidi in una passeggiata con mia madre nel Piazzone un velivolo italiano caduto sorvolando Perugia. Infine, dopo la morte dello zio Augusto, quando vidi mia madre vestita a lutto che rientrava da una messa in suffragio del fratello, la mia rabbia infantile contro la guerra (ma lo zio Augusto era morto di spagnola durante una licenza verso la fine della guerra) sfogata rompendo i prediletti soldatini di piombo!

Infine, dopo preannunci datimi dal vecchio Vittorio, il “giovane di bottega” della farmacia, della guerra che si avvicinava alla fine e che alla mia domanda «Che succede quando arriva la pace?» rispondeva con mio grande piacere «Si mangia la pastasciutta, il cappone, la torta. Si fa festa e si accendono i fuochi d’artificio», venne il 4 novembre: io uscivo per la mano di mia nonna dalla farmacia e all’inizio del Corso incontrammo una folla con bandierine di Trento e Trieste, in gran festa. E la mia nonna, piuttosto paurosa, mi riportò in fretta al rifugio della farmacia.

A parte questi ricordi della “grande guerra”, ora i miei ricordi si infittiscono: al Natale del ’17 mi pare di dover attribuire la mia recita del “sermone” alla Chiesa Nuova: mi sento ancora prendere sotto le ascelle da mio padre e mettermi in piedi sulla balaustra della prima cappella della Chiesa (a destra entrando) e mi rivedo lí impettito a sciorinare spedito e disinvolto il sermone (insegnatomi da chi? da mia madre, penso): la mia prima prova oratoria.

Altri ricordi infantili: 6 anni? Una domenica mio nonno e mio padre mi portarono a piedi, a Monte Malbe, al convento dei Cappuccini. Arrivando incontrammo il padre guardiano con il fucile da caccia in spalla: ciò che mi empí di grande meraviglia e poi mi stupí quando egli salutando mio nonno e mio padre si scusò di non poterli accompagnare di persona nel convento, perché doveva andare per una mezz’ora nel bosco vicino a cacciare i tordi prima di tornare per dire la messa! Del Convento ricordo soprattutto il grande refettorio e il sontuoso pranzo domenicale e per il quale il guardiano si scusò con noi della “modesta refezione”: ciò che mi riporta alla stessa espressione usata in un cartoncino d’invito dei frati francescani di Assisi per un pranzo che non finiva mai, a cui partecipammo io (come deputato alla Costituente), Capitini come rettore dell’Università per stranieri (che lo gustò assai poco essendo vegetariano) e qualche altro deputato umbro fra cui, particolarmente entusiasta del ghiotto simposio “per la festa di S. Francesco”, Ivo Coccia, ovviamente democristiano, il cui nasone dopo le numerose libagioni si fece rosso come di fuoco. E insieme ricordo , come in un velo di sogno, il laboratorio di fisica diretto da un certo padre Egidio che per divertirmi mi fece varie esperienze con il mercurio che egli divideva in molte parti, che rapidamente si attraevano fra di loro formando una massa lucida e molle (o questo laboratorio lo confondo con quello del convento francescano di Monte Ripido fuori di Porta S. Angelo?).

Mio nonno (forse l’ho già detto) era amico di frati e di preti (fra cui don Zeffirino parroco di un paese della pianura, un bell’uomo, sempre elegantissimo e azzimato, di cui si narrava che ogni tanto si recava a Roma e si portava un vestito “borghese” per le sue imprese erotiche) perché era decisamente bacchettone. Mio padre, che da giovane si manifestava libero pensatore e anticlericale (e forse massone, poi con il fascismo caduto in sonno?), era amico degli stessi perché da cacciatore bazzicava spesso i conventi e le parrocchie del perugino.

Di altre gite in campagna coronate da un pranzo in casa del prete locale ne ricordo una soprattutto per il pomeriggio estivo, caldissimo, in cui fui mandato a riposarmi in una camera e nel comodino trovai un vaso da notte pieno di orina che mandava un forte odore acre. Pensai che fosse di una ragazzotta figlia della perpetua del prete (o anche dello stesso prete?) e ne stomacai concependo una infantile avversione poi presto svanita per il sesso femminile.

Dal 1919 la mia memoria cosciente si sviluppò soprattutto in coincidenza con la mia frequentazione della scuola elementare privata della signorina Giulietta Rossi in Via Mazzini. Era una scuola assai riservata e famosa a Perugia, con pochissimi e scelti scolari, tanto che io vi passai i 4 anni delle elementari solo maschietto insieme a 3 bambine di buona estrazione sociale come me: Augusta (?) contessina Degli Oddi, Lavinia Donati, figlia di un ricco commerciante, … Maiotti, figlia di un negoziante di stoffe in uno dei piú bei negozi del Corso. La Degli Oddi era piuttosto silenziosa e altezzosa, e raramente rivolgeva la parola ai suoi compagni. La Donati mi voleva molto bene, tanto che io conservo ancora un suo bigliettino per Natale con espressioni tenere e ingenue (io e lei avevamo 6 anni). La Maiotti, la piú simpatica ed estroversa, scherzava con me e sottostava a certe mie pretese innocenti, ma radice di una vocazione eterosessuale: fra l’altro le premevo con un mio dito una sua mano e lei doveva rispondere alla mia pressione con un “ih!” che mi faceva molto piacere.

Ma il ’19, ’20, ’21, ’22 sono anche gli anni delle sommosse rosse e poi della reazione fascista. Mentre scrivo scoppiano le bombe a Milano e Roma. Non avrei mai creduto di ritrovarmi da vecchio di fronte a un simile crollo della democrazia italiana!

“Amarcord” (quanti!) un pomeriggio in cui con mia nonna salivo per la Piaggia Canapina e a un certo punto risuonarono i colpi secchi delle mitragliatrici (una sulla torre degli Sciri, una sul tetto del Duomo e del Comune) che volevano disperdere una folla di manifestanti rossi fra il Corso e la piazza IV Novembre. Mia nonna tutta impaurita mi tirava per un braccino per raggiungere presto il rifugio della nostra casa, e cosí frastornata che scambiò per il signor Amedeo (un signore composto e noioso) suo fratello che con voce cupa e solenne precisò: «Non sono Amedeo, sono Oddone!»; ne sento ancora sotto il rumore delle mitragliatrici il tono di burocrate sabaudo! E ricordo di molta gente di corsa giú per Via della Cupa gridando, e spari di rivoltella. Spesso mi rallegrava, come una rappresentazione vera dei soldatini di piombo, la vista di insolite misure poliziesco-militari: doveva essere la Pasqua del 1920 e io per mano a mio padre guardavo incuriosito davanti alla Prefettura due pezzi di artiglieria, aggiogati a due cavalli, montati da due soldati con elmetto: erano parte di una batteria da reggimento di artiglieria di campagna che da Foligno era stata inviata a Perugia a protezione dei centri amministrativo-politici.

Ricordo le prime squadre fasciste, aretine e fiorentine, che venivano a compiere le loro spedizioni punitive con uccisione di socialisti che governavano il Comune. Un giorno di ottobre (il 26 o il 27) uscendo da scuola e accompagnato in farmacia da un garzone di mio padre vidi la piazza piena di contadini in camicia nera e con i fucili da caccia. Il giorno dopo era il 28 ottobre, il giorno del tradimento del re e della presa del potere da parte di Mussolini. Certo io non ero in grado di avere un’opinione mia su tali fatti e sul sorgere del Fascio a Perugia (ricordo una sede in Piazza Danti; meglio, quella in via Baglioni), cose che vedevo piú con meraviglia e attrazione per il gusto militaresco del bambino avvezzo al gioco dei soldatini e ai racconti di guerra che con precisa partecipazione, anche se l’atmosfera in famiglia era orientata all’“ordine” e all’antipatia per i miglioramenti delle classi subalterne: piú chiaro in mio padre che veniva orientandosi come ex combattente (e anche per il suo istinto un po’ arrivistico e avido di cariche pubbliche), piú istintivo nella mia nonna, che ricordava con orgoglio le 17 persone di servizio della sua casa paterna, che non sopportava che le contadine e le operaie portassero le calze di seta e che gridassero alle signore «Via i cappellini». Mia madre di educazione risorgimentale-monarchica, grazie al padre amatissimo tenente garibaldino e guardia d’onore al Pantheon alle tombe del re “galantuomo” e del re “buono”, era piú riservata e piú mite, ma pur sempre una N.D., nobildonna, come esigeva nel suo indirizzo; mio nonno, placido e all’insegna del «sono riccio e non me ne impiccio», ma alieno dallo spirito di violenza (mi ricordo una sera nella sua farmacia che con manifesto schifo dové preparare un bicchiere di olio di ricino che i fascisti somministrarono ad una guardia comunale sovversiva).

A poco a poco mio padre si avvicinò al fascismo e cosí io verso i 13 anni (1926) fui condotto da lui alla Casa del Fascio che era nei locali dell’antico Ospedale in Via Oberdan, venni iscritto ai balilla (mi piaceva trovare altri ragazzi e qualche ragazzina come l’Orioli, mia compagna di classe al Ginnasio), e fui prescelto come portavessillo insieme ad altri ragazzi di buona famiglia. Facevo cosí qualche viaggetto anche insieme a ragazzine-piccole italiane (come le Buccolini assai piacenti): me ne ricordo uno ad Assisi e piú tardi (ero già avanguardista) a Marsciano in un’estate caldissima per esercizi ginnici seguiti poi da un malinconicissimo pranzo in una trattoria di quel paese, svogliato e nauseato da quei cibi troppo conditi e rozzi, a cui mi stimolava un ragazzetto contadino improvvisato cameriere. Ma quella specie di allegria comandata e la grossolanità di molti miei camerati mi stancarono presto delle prestazioni di avanguardista. Trovai mille scuse per sfuggire a quelle adunate noiose e inutili.

Intanto il mio sviluppo mentale e culturale procedeva velocemente specie grazie alle letture private che presto passarono dalle storie di Buffalo Bill e poi di Salgari, di Verne, alle storie della Rivoluzione francese (Michelet, Thiers), ai romanzi di Verga, Svevo (che mi colpí molto), i russi, Balzac, Stendhal, mentre la mia netta propensione alla letteratura – anche con velleità di produzione mia poetica e narrativa – trovava alimento al Liceo nell’ottima antologia del Momigliano e nelle lezioni assai stimolanti del professore di italiano, il cortonese Bernardini arguto e disponibile, che mi stimava, tanto da farmi leggere i miei temi direttamente in classe, senza averli prima letti.

[Un tema in classe come questo, di V ginnasio (1928): Binni ha quindici anni, e si merita un 9 dal professor Bernardini.]

Tema. Che ne direste voi di un giudizio di questo genere: «La musa di Dante si sdegna, la musa del Petrarca piange, la musa del Boccaccio ride»? (Vi dovete pronunciare limitatamente, si intende, a quello che conoscete dei 3 autori).

Svolgimento. Dire di questo giudizio una parola sola, credo sia molto piú franco e deciso che fare un lungo preliminare farraginoso e zoppicante per deludere la netta risposta. Per me il giudizio è giusto. Molti vacilleranno tra bello e netto, tra reciso e appropriato ecc. Per esprimere un giudizio di un giudizio con una sola parola bisognerebbe però essere piú grandi di chi l’ha formulato o molto piú ignoranti. Per chi è nel mezzo è meglio non slanciarsi troppo.

Ogni uomo ha un’impronta digitale propria, cosí ogni poeta ha un’anima, una Musa propria. Solo che ogni vero poeta è grande. Tra gli uomini si possono distinguere 3 classi.

Una classe si può rassomigliare a un branco di rospi che strisciano nel pantano, essi son tutti simili nella loro sciocca petulanza, si possono riconoscere solo dalle macchie piú o meno verdi del corpo. Lo stesso gracidio, lo stesso dimenarsi, lo stesso imbrattarsi di fango.

Vi è poi un’altra classe che sembrerebbe un branco di uccelli-rospi se esistessero questi animali. Guizzano piú in alto, si librano un po’ e poi ripiombano giú. Questi esseri strani hanno il rostro dell’aquila, ma il ventre dei rospi. La loro anima li porta in su, il corpo li trascina giú nel pantano.

Infine in alto, sopra le rupi eccelse, a picco, affilate come spade, inno della Natura a Dio, è la classe delle aquile: rostro d’aquila, corpo d’aquila, artigli d’aquila, bagliori aquilini nell’occhio.

Essi sono i massimi. Vi paiono simili? Sí, hanno le stesse ali, le stesse penne, gli stessi rostri, ma gli occhi? Quella ha nell’occhio le pianure sconfinate della valle di Tempe, l’altra i marosi fluttuanti dell’Oceano, l’altra schiere lunghe di guerrieri tendentisi dalla Vita fino alla Morte, l’altra un mirabile insieme di numeri sommantisi, moltiplicantisi, dividentesi, l’altra fanciulle danzanti tra fiamme e incenso in un tempio dalle colonne di marmo Pario, l’altra «un cantore Silvano a un’Elvira che di tra i capelli sparsi sul petto splende carne e carne», l’altra l’ebbrezza estasiosa delle convalli d’Assisi, l’altra i deserti della Tebaide, l’altra i ghiacciai del Polo, l’altra le notti stellate di maggio.

Io credo che nulla di piú grande vi sia sulla terra della poesia; quando le notti lunghe d’inverno davanti ai camini immensi il trovatore cantava «O Durendal come sei bella e bianca» il volto del feudatario si accendeva in tutte le grinze, il volto fresco dello scudiero luccicava, gli occhi della giovane castellana piangevano, e il trovatore commosso in se stesso cantava e piangeva!

Il vecchio eremita che incontrò Zarathustra che faceva quando voleva elevarsi a Dio? Componeva versi, li recitava, tremava e piangeva! È naturale perciò che io metta Dante, il Petrarca e il Boccaccio tra le aquile immani, dalle ampie tese di ali, dal rostro adunco che cerca giovenche.

Dante: tempra sanguigna a cui s’affilarono, s’affilano, s’affileranno, come le lame Guasconi nel Guadalquivir, tutti gli Italiani passati, presenti, futuri, linfa vitale a cui si abbeverarono colle fauci assetate Carducci e D’Annunzio che forti del nuovo vigore balzarono come la gioia di giovani Titani verso l’avvenire! Chi altri poteva ispirare Carducci a cantare del rinnegato, «e dalla bocca laida bestemmiatrice, un rospo verde palpiti» se non Dante che levata la faccia al cielo grida l’invettiva a chi rovina Firenze?

A chi si sarà ispirato D’Annunzio cantando le glorie del «griffon che rampa» di fronte all’«evo imbelle» se non Dante?

Petrarca: sogno di giovani adolescenti; dolcezza infinita di cuori spezzati, di piccole anime infrante!

Leopardi gridalo tu se dal balcone dell’infinito non recitavi versi del Petrarca e allora dall’anima, subito fiotto di vivido canto, uscirono i versi divini dell’Infinito?

Quando Chateaubriand guardava nei tetri abissi Bretoni tendeva l’orecchio al cupo fragore del Niagara, nel pensiero con Renato, con Atala tornava al dolore di Francesco Petrarca. In Werter chi piange se non lo spirito universale del cantore di Laura?

In Jacopo Ortis qual dolore sfolgora se non quello che empieva il vuoto dell’aere a Valchiusa?

E tu Giovanni Pascoli cantando «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico; io sono altrove e sento / che sono nate intorno le viole» ecc., che ripetevi se non «Chiare, fresche, dolci acque» ecc.?

Quanto al Boccaccio esso è lo spirito che allegra e vivifica, il riso che parte dal cuore e arriva alla bocca e la scuote convulsamente e si propaga per le membra, al ventre e dà tutto un movimento sussultorio e contagioso. Il Boccaccio è in tutte le facce sorridenti e piene pronte a scrosciare in una fragorosa risata.

Il paragone tra le 3 muse dei 3 poeti si ha subito chiaro aprendo a caso la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decamerone. Trovare retorica in Dante, finzione nel Petrarca, ironia sanguinante nel Boccaccio è un uccidere Dante, Petrarca, Boccaccio.

L’anima di Dante e del Boccaccio è trasfusa nei loro personaggi sí che lo sdegno di Farinata, l’allegria di Buffalmacco sono il carattere esagerato di Dante e del Boccaccio. In prova del giudizio sul Petrarca viene lo stesso Canzoniere nel suo insieme. Il Canzoniere non narra avventure, dolori d’altri, ma proprie le avventure, i dolori dell’autore. E quando uno canta i propri dolori non può non piangere sinceramente. Il pianto per dolori altrui è molto spesso contraffatto, ma il pianto di sé stesso è in ogni modo sincero ché anzi se anche il Petrarca non avesse sofferto veramente i dolori che ci narra, tuttavia informandosi della parte creatasi, pensando ai possibili dolori il Petrarca avrebbe pianto lo stesso e dalle sue pagine sarebbero sgorgate le stesse lacrime salate di pianto.

Per poter dare un’esatta riprova della precisione del giudizio dato per tema occorrerebbe confrontare brano per brano la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decamerone, forse ci vorrebbe un po’ piú di un’oretta per scrivere e piú di 2 ore per copiare.

Ad ogni modo accontentiamoci di concetti cosí sgorgati senza coordinazione o subordinazione.

Per distinguere i 3 poeti e le rispettive Muse basta del resto fare un piccolo riassunto delle loro vite e dell’ambiente in cui sono vissuti.

Prendiamo Dante: immaginate la vita fiorentina nel ’300: discussioni, lotte, dispute, odi feroci, passioni irrompenti. A tratti si poteva sentire l’urlo dei combattenti e sapere che i Cerchi erano venuti a lotta con i Donati. Oh cose da poco!... Un po’ di morti e uno dei Cerchi amputato delle mani! Piú in là partono fanti e cavalieri. Dove vanno? In guerra contro Siena. Quanti ne torneranno? E cosí via di seguito. La vita della Repubblica Fiorentina in questo periodo ha un po’, naturalmente in piccolo, della vita della Francia nella Rivoluzione. Per il sobborgo S. Marcello passano i volontari cantando l’inno dell’Armata del Reno. Vanno a Valmy. Quanti ne torneranno? All’Assemblea un Girondino e un Hebertista si sono minacciati con le spade. Per via S. Onorato sono passate 8 carrette per piazza della Rivoluzione verso Santa Ghigliottina. Non Terrore, non Ghigliottina a Firenze, ma lotte, ma uccisioni, ma guerre sí. Un fanciullo di notte si poteva svegliare al suono della campana e vedere il padre balzare dal letto, prender le armi, uscire respingendo la moglie discinta, piangente, implorante. Poi il silenzio... Poi urli, grida, bestemmie. E la mattina dopo forse il padre non tornava...

Cosí la giovinezza di Dante. Poi fu il collaudo dell’uomo. Folla dinanzi a cavalieri, cavalli che imbizzarriscono, donzelle che gettano fiori, ebrezza e orgoglio di essere ammirati. Poi via! E Campaldino! Campaldino che fa impazzire un prode barone smarritosi tra i morti cavalcante una pazza cavalcata alla luce lunare, Campaldino che ha bevuto il sangue del Sir di Narbona e del Vescovo d’Arezzo.

Dante è ormai uomo. L’amore per Beatrice è qualcosa di dolcissimo, di celestiale, ma il dolcissimo e il celestiale rimangono nel fondo del cuore perché presto potrebbe venire un Conte Gabrielli; il cavallo scalpiterà doloroso sulla via dell’esilio. E le lunghe peregrinazioni umilianti esacerbanti affogano la dolcezza e il divino. Forse una volta tra la malaria e la morte nella pineta che farà piangere Byron l’animo ulcerato dai dolori e dalle pene infernali, potrà elevarsi fino a Dio e vedere tra lo stormire dei grandi pini Angeli e Santi...

Il Petrarca ebbe una fanciullezza forse assai simile a quella di Dante. Infatti Firenze e Arezzo si avvicinarono a Campaldino e si avvinsero in una stretta mortale. Ma poi ecco Avignone: il ponte sul Rodano, passano dame, cavalieri dai bei riccioli d’oro, dalle barbe fluenti che piacevano tanto alla regina Giovanna...

Forse c’è anche la mula del papa che danza un passo scrollando il bel vecchio impellicciato al suono di pifferi. Oh le belle brigate di giovani chierici che si spargono per le campagne e scherzano! Anche il papa va nel suo bel podere e beve un bel bicchiere di vino rosso francese... Non importa poi se nelle stanze si uccideva la purezza; del resto, come tutti sanno, l’aria del Rodano ispira un non so che di sensualità che forse uccise insieme all’umidità della torre il povero re Renato.

Poi la dolce solitudine che è impossibile descrivere, ma è molto possibile pensare ognuno nel proprio cuore. Solitudine dolce quando da una parte gorgoglia la polla d’un torrentuccio, dall’altra dai rami sporge la testa del pettirosso, l’usignolo canta, la lucertola sguscia verde come l’erba nelle sue tane e il corpo si abbandona, e lascia l’anima sola in uno strano torpore dei sensi...

Vagare per città, campagne di tutta Europa è ripetere la gioia della corte Papale e la dolcezza infinita delle sorgenti del Sorga. Io so che dalla dolcezza al pianto il passo è breve, direi che è conseguenza immediata.

I Colli Euganei sono belli e verdi come e piú delle vallate del Rodano, hanno qualcosa di piú, perché il cielo è piú azzurro e l’erba piú verde e l’insieme di colori piú vivaci dà una dolce tristezza, una melodia inenarrabile all’occhio e lo carezza insieme e lo sferza.

Morire con sotto gli occhi Virgilio significa aver pianto la notte perché quando uno ha pianto sente il desiderio di confortarsi in qualcosa piú forte di sé.

Il Boccaccio poi ha una vita cosí avventurosa che troppo occorrerebbe dire: corre da Parigi a Certaldo, da Certaldo a Napoli, da Napoli a Firenze. Per tutto trova allegria e lascia allegria. Si trova insomma nel suo ambiente. Ambiente che va dalla camera di re Agilulfo al postribolo della Ciciliana di Andreuccio, che va dall’intricata vita Napoletana alla semplicità dei Certaldesi.

Detto ciò è detto ciò che si può dire in sí poco tempo.

E ora lasciamo che le 3 aquile dall’alto delle rupi lancino il loro grido e volino verso il sole, che non li ferisce negli occhi brillanti.